A DINNER WITH
MARTINA MONDADORI
da Giacomo

Fondatrice di Cabana Magazine e Casa Cabana, Martina Mondadori è una cliente affezionata di Giacomo fin da bambina. Durante il pranzo sono emersi teneri ricordi legati agli affetti familiari e incontri inaspettati ed emozionanti, avvenuti proprio nei nostri locali. Di fronte a uno dei grandi classici del menu, ci ha raccontato di lei, del suo lavoro e di questi aneddoti affascinanti.

Ricordi un evento particolare da cui è scaturita la tua passione per il design? Quando hai capito che sarebbe diventata la tua professione?
Non credo ci sia stato un momento, credo che sia stato proprio un crescendo. A partire dall’essere cresciuta a Milano, circondata dal design, in una casa decorata da Mongiardino, che lui stesso spesso frequentava. La vera passione per l’interior è nata quando mi sono trasferita a Londra nel 2012. All’epoca lavoravo, ero una mamma, avevo due bambini molto piccoli, e passavo il mio tempo libero guardando libri di interior e visitando luoghi interessanti. Londra è una città con una forte componente di design, anche proprio rispetto dell’industria della decorazione. Ci sono tantissimi negozi di stoffe, showroom… è una vera presenza. È stato come se lì avessi dato libero sfogo a questa mia passione. Infatti, è a Londra che è nato Cabana.

Nel 2012 ti sei trasferita a Londra, dove hai vissuto per diversi anni. Quali differenze hai riscontrato nell’approccio al design rispetto all’Italia?
L’Italia, ovviamente, è la vera capitale del design. Sia per la produzione, che avviene nell’hinterland milanese, sia per la storicità di Milano in relazione al design – Gio Ponti, Portaluppi… Detto questo, credo che Londra abbia una maggiore consapevolezza e maturità nel non vergognarsi di tutto ciò che può risultare vecchio e passato, abbracciando a pieno la sua storia. Mentre ho la percezione che gli italiani abbiano sempre questo desiderio di fuga in avanti, qual è il prossimo trend, cosa succede dopo…
Ricordo benissimo quando, con Cabana, avevo iniziato a battere il chiodo di Mongiardino. Tutti i media stranieri hanno accolto con entusiasmo questo rilancio. Per gli italiani, invece, era una cosa passata. Secondo me c’è una maggiore capacità di legare passato, presente e futuro, senza dover sempre correre in avanti, cosa che invece facciamo qui. Forse perché abbiamo troppo passato.

Ci parli di Cabana? Come è nato il progetto e in che modo la visione editoriale del magazine si lega alla ricerca portata avanti con Casa Cabana, il brand di homeware?
Cabana Magazine è nato come progetto personale, non come un business. Non c’era un business plan, né altro. È successo che, vivendo a Londra, da un lato stavo scoprendo il mio nuovo paese adottivo e dall’altro, essendo lontana da Milano, sentivo la mancanza dell’Italia, della mia casa, di Mongiardino… così ho cominciato a fare dei moodboard fisici, accostando immagini di interior inglesi e italiani, e Cabana è nato così. Tutt’oggi ha un’anima italiana e una inglese, c’è sempre questo binomio che era parte della mia vita. Che è parte della mia vita.
Anche la parte dedicata all’homeware di Casa Cabana è nata in maniera molto organica, con l’idea di estendere l’esperienza delle pagine del magazine al mondo degli oggetti. Il progetto accoglie pezzi vintage ed edizioni che produciamo insieme a delle realtà artigianali, per lo più in Italia, ma anche nel resto d’Europa e del mondo. Si tratta proprio di legare il mondo editoriale a quello dell’artigianalità.

La rivista mira ad esplorare la relazione che lega le persone al mondo del design e dell’interior. Come descriveresti la tua?
Penso che non c’è nulla di più personale delle stanze in cui viviamo. Abitandole, vengono stratificate di esperienze, ricordi, oggetti che ci ricordano qualcosa. Proprio per questo, secondo me, sono la quinta essenza della memoria e, di conseguenza, quanto di più personale ci sia. Le stanze di casa mia esprimono la mia personalità ancora di più del modo in cui mi vesto. In questo senso, credo che una stanza dica tantissimo di una persona.

In occasione del Salone del Mobile di quest’anno, Giacomo ha avuto il piacere di collaborare con Cabana Magazine al progetto Caffè Cabana Giacomo, offrendo un luogo di ritrovo e rifugio dalla frenesia della Design Week all’interno di Palazzo Morando. Come si è evoluta la collaborazione?
Le collaborazioni di Cabana nascono sempre in maniera molto organica e autentica. In questo caso, Giacomo è una realtà milanese come noi, siamo legati da una storia e un percorso comuni, e dal rapporto con Mongiardino. Io poi ho tantissimi ricordi legati al locale, da bambina e negli anni a seguire. Quindi l’idea di creare uno spazio di community a Milano, durante il Salone, non potevamo che svilupparla con Giacomo. Abbiamo avuto l’opportunità di realizzare il progetto in una cornice storica e bellissima come il cortile del Museo Morando che, secondo me, è uno dei gioielli nascosti della città, come il Museo della città di Milano che si trova al primo piano. È stata una di quelle situazioni nate un po’ per caso, ma che calzavano proprio a pennello.

Che tipo di esperienza è stata offerta ai visitatori e che ruolo ha ricoperto la convivialità, da sempre un aspetto fondamentale nel mondo di Giacomo?
Milano è la capitale storica dei caffè, che hanno sempre avuto il ruolo di fare incontrare le persone. Penso, ad esempio, al Bar Jamaica, che aveva questa funzione di punto di incontro del mondo del design e dell’arte… Con Caffè Cabana Giacomo volevamo – e credo che ci siamo riusciti – offrire un punto di incontro e di ritrovo a tutta la comunità creativa dell’interior e del design, presente a Milano in quei giorni. Poter dare vita alle collezioni di Casa Cabana in un contesto come quello del cortile di Museo Morando, insieme a Giacomo, è stata davvero un’esperienza unica.

Nel 2020 ti sei ristabilita a Milano con la tua famiglia. Che tipo di relazione hai con la città? Come si svolge qui una tua giornata tipo?
Milano mi ha molto stupita, in positivo. Da quando sono tornata, la trovo una città con un’energia completamente diversa, molto più internazionale, cosmopolita e, soprattutto, molto più aperta. È come se tutto a un tratto il milanese, che di natura è più chiuso rispetto ad altre città italiane, fosse particolarmente fiero dei propri luoghi e aperto all’arrivo di stranieri. Anche proprio durante il Salone del Mobile, che è un momento molto democratico, durante il quale tutti i palazzi e i giardini vengono aperti, si passa da un posto all’altro… Diciamo che la Milano di adesso non è quella in cui sono cresciuta io da un punto di vista molto positivo.
Milano è una città estremamente pratica, come un grande villaggio, dove si riescono a fare tantissime cose in una giornata. Io mi alzo abbastanza presto la mattina e accompagno mia figlia a scuola, mentre gli altri sono grandi e vanno per conto loro, poi vado in ufficio in centro. Ho riunioni, appuntamenti… cerco di vedere qualche amica o amico per colazione. Il pomeriggio, invece, cerco di passarlo a casa con i ragazzi che rientrano da scuola. Però tutto questo è molto easy e rilassante a Milano. A Londra la stessa giornata richiedeva molto più impegno in termini di spostamenti, mezzi pubblici… qui giro quasi sempre in bicicletta.

La casa dove sei cresciuta era stata decorata dall’architetto Renzo Mongiardino, con cui Giacomo ha un legame speciale. Gli interni del nostro storico ristorante in via Sottocorno, infatti, sono opera sua. Che influenza ha avuto il suo lavoro sulla tua visione creativa?
Ha avuto un’influenza enorme. Crescere all’interno di quella casa, con le mura decorate da lui, mi ha permesso di abituare l’occhio ai colori e alla cultura dietro ogni dettaglio. Perché Mongiardino era un uomo di enorme cultura, non solo visiva ma anche letteraria. Quando lavorava, le citazioni erano tantissime. In più, all’epoca aveva decorato moltissime abitazioni, anche quelle di genitori di mie amiche, per cui ne vidi tante e credo che abbia avuto un influenza inestimabile sul mio modo di relazionarmi agli interni e alla decorazione.
Mongiardino aveva la grandissima abilità di non imporre la sua visione, ma di capire il DNA di un luogo. Il ristorante di Giacomo in via Sottocorno è esemplare di questo. È senza tempo, di una semplicità enorme, eppure estremamente accogliente e conviviale.

Ricordi la prima volta che sei venuta nel nostro locale? Cosa ti aveva colpita di più?
Non ricordo esattamente la prima volta, ma ricordo la sera prima della mia cresima. Era un’occasione un po’ speciale perché tutta la mia famiglia, i miei cugini e i miei zii, erano venuti dal Veneto e ci eravamo trovati da Giacomo. Era stato proprio un grande momento di riunione familiare. Ricordo che mia mamma sosteneva che la pizzetta che ti davano come antipasto prima di cena fosse la miglior pizza di Milano.

Cos’hai ordinato oggi?
L’insalata di mare su soffice di patate, con limone e fregola soffiata.

Il nostro fondatore Giacomo Bulleri credeva fermamente nella capacità del cibo di evocare un intero spettro di ricordi e sensazioni, grazie a sapori, consistenze e alla loro combinazione. Che cosa ti riporta alla mente questo piatto?
È sempre stato il mio piatto preferito qua da Giacomo. Quando vengo a pranzo lo mangio sempre come piatto principale, invece la sera come antipasto, prima di mangiare altro pesce. Un punto fermo.

C’è un aneddoto legato alla tua esperienza da Giacomo, agli incontri piacevoli e inaspettati che ti è capitato di fare qui, che ti va di condividere?
Ricordo una volta di aver raggiunto mia madre, che era lì a colazione con Mongiardino, Umberto Pasti, Stephan Janson e Lee Radziwill, la sorella di Jackie Kennedy. All’epoca era la metà degli anni ’90, c’era la settimana della moda a Milano e Lee Radziwill era venuta in quanto ambasciatrice di Armani. Mi ricordo proprio che ero affascinata. Era una tavola abbastanza interessante.

Come descriveresti la tua esperienza passata e presente da Giacomo, in tre parole?
Dirò una parola in inglese, che però riassume perfettamente l’atmosfera del ristorante, che è cosy, familiare e… il meglio di Milano.

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