A DINNER WITH
ANDREA FARINETTI
da Giacomo Bistrot

Andrea Farinetti è a capo di Fontanafredda, una delle più grandi e storiche cantine delle Langhe e del Piemonte. Durante la nostra cena insieme, davanti a una cotoletta alla milanese, ci ha parlato del legame tra vino e convivialità e, soprattutto, dei suoi ricordi legati a Giacomo Milano.

Come ti sei avvicinato al mondo dell’enologia e quando hai capito che avresti voluto farne una vera e propria professione?
Essendo delle Langhe, nato ad Alba, l’ho sempre avuto abbastanza nel sangue. Fin da bambino andavo a camminare in mezzo alle colline piene di uva, a settembre… è una questione di magia del luogo. Poi a quattordici anni ho iniziato a fare la scuola enologica e ad avvicinarmi all’argomento in maniera più approfondita. Ho capito che sarebbe diventata una professione abbastanza subito, intorno ai sedici anni. Studiando e andando avanti ho capito che era una passione così grande che poteva diventare un lavoro.

Qual è la parte che preferisci del tuo lavoro a Fontanafredda?
Ci sono un miliardo di aspetti divertenti e molto belli. Sicuramente settembre è il momento e la parte del lavoro che preferisco in assoluto, quando c’è la vendemmia. In quei quindici, venti giorni si decide tutto. Si decide quale sarà il vino del futuro. E poi questi Baroli, che possono durare anche cinquant’anni, vengono fatti in quel periodo.

Su quali principi si fonda l’azienda?
Siamo i più grandi produttori privati di Barolo e di grandi vini delle Langhe, in una cantina di storicità incredibile, fondata nel 1858 dal primo re d’Italia. Il grande sviluppo l’ha dato poi il figlio Emanuele Alberto, conte di Mirafiori, che aveva dei principi etici e sociali incredibili. Ha costruito il primo CRAL, che all’epoca si chiamava FAO (Fratellanza Agricola Operaia), che era il luogo all’interno dell’azienda dove i dipendenti potevano acculturarsi. Ha fatto il primo Salariato Agricolo d’Italia, perché ha capito che retribuendo il lavoro le persone potevano essere più felici, rispetto a sistemi come il baratto e la mezzadria. Ha costruito chiese, case… tutto quanto. Di conseguenza, anche noi abbiamo deciso di basarci su quei principi. Sull’etica sociale e l’etica verso la terra – siamo biologici certificati –, sull’etica del lavoro, economica e sociale, ovvero tutti i parametri che oggi vengono utilizzati per definire la sostenibilità. Abbiamo anche deciso che devono essere chiari e attestati, quindi dal 2020 siamo certificati con il bilancio di sostenibilità ed etica sociale, economica e sulla natura.

Fontanafredda è stata certificata azienda biologica nel 2018. Un passaggio importante, soprattutto per un’azienda delle vostre dimensioni. Perché credete in questo tipo di agricoltura?Credo in un’agricoltura che faccia sì che il bene che ho preso in mano oggi, che è la terra, possa un domani darlo in mano a qualcun altro meglio di come l’ho trovato. Il biologico è il punto di partenza per trattare questo bene il meglio possibile, ma lo sviluppo verso il massimo della sostenibilità è un percorso continuo.
Bio significa non avere chimica pesante all’interno dei nostri vigneti, ed è un passo avanti enorme. È un percorso culminato nel 2018, ma iniziato nel ben più lontano 2004, quando si era deciso di eliminare i diserbanti. Poi, passo dopo passo, si è sempre tolto qualcosa cercando di andare verso una maggiore naturalità, favorendo la biodiversità delle nostre colline. E, quindi, di andare verso un futuro sempre più pulito.

Ci parli del ruolo dell’hospitality nell’attività di Villaggio Narrante a Fontanafredda? Qual è la tua impressione rispetto al turismo vinicolo?
L’hospitality è fondamentale perché, in realtà, noi dobbiamo raccontare il valore e le storie che stanno dietro a una bottiglia di vino, non soltanto la qualità intrinseca del prodotto. Villaggio Narrante ci permette di farlo nel migliore dei modi, perché le persone vengono qui, in casa, vedono con i loro occhi quello che succede, come viene fatto, da dove nasce… è una cosa incredibile.
Il turismo vinicolo oggi è sempre più di alto livello. Si è fatta tanta cultura nel mondo, soprattutto per i vini delle Langhe. Sta portando moltissime soddisfazioni, ma dovremmo imparare ad allargare la capacità di ricezione turistica, che è prevalente nella bassa Langa, e diluirla nei territori più alti come il Monferrato e l’Astigiano, facendo scoprire tutto il patrimonio di questo sud del Piemonte, che oggi è incredibile.

Una delle priorità di Giacomo Milano è quella di trasmettere calore ai propri ospiti, facendoli sentire felici e soddisfatti. Per questo la convivialità è un ingrediente fondamentale nella nostra filosofia. Come si lega questo aspetto all’esperienza del vino?
Credo sia un passaggio veramente semplice. Il vino nasce come alimento, solo negli ultimi anni si è trasformato in un bene di lusso. Lo scopo dei produttori è quello di farlo ritornare al suo ruolo di centralità, ovvero che quella bottiglia al centro di un tavolo sia l’elemento che fa sì che le persone si diano del tu. Il vino è il motore generatore della convivialità, della capacità di creazione di argomentazione, di discussione… tutte le grandi decisioni importanti dell’umanità sono state prese davanti a un bicchiere di vino.

Giacomo ha un rapporto speciale con Milano. Il nostro primo ristorante è stato aperto qui e, pur avendo inaugurato diversi locali anche al di fuori della città, rimane il luogo a cui siamo più affezionati. Quanto spesso vieni qui? Quali sono i tuoi luoghi preferiti di Milano?
Vengo spesso a Milano, perché la mia ragazza è di qui. Quando uno delle Langhe, quindi un contadino o un agricoltore, viene a Milano vede una città incredibile, che va alla velocità della luce… la vedi come la metropoli italiana e ti immagini il futuro. Poi entri da Giacomo e dici “Ah, che bello, c’è ancora dell’umanità” e respiri una Milano un po’ diversa, che è quella vera. Mi piacciono questo tipo di luoghi, trattorie e osterie storiche dove c’è ancora un aspetto di paese.

Ricordi la prima volta che sei stato da Giacomo?
Credo di essere venuto da Giacomo per la prima volta sei o sette anni fa. Ero con la mia ragazza e ci siamo seduti nella sala principale, perché io volevo mangiare la cotoletta. Questo me lo ricordo benissimo.

Cosa ti ha colpito di più del nostro locale, che ti ha fatto tornare a trovarci ancora e ancora?
È proprio questa capacità di ritornare nella Milano di un tempo, chiaramente vista in chiave attuale. È uno di quei ristoranti in cui hai la sensazione di poterti sedere e rilassare. Ci sono ancora la tovaglia e le posate belle… non è uno di quei posti dall’effetto super wow, che un domani cambia perché è passato di moda. Rimane sempre attuale, per quello ci torni.

Per Giacomo, la buona cucina e la convivialità rappresentano un vero e proprio modo di vivere. Cosa significa per te buona cucina? Quali sono i suoi “ingredienti” essenziali?
La buona cucina per me è semplicità, e materie prime di qualità. In un piatto non dovrebbero esserci più di quattro o cinque ingredienti. Devono essere pochi, ma buoni.

Quando vai in un ristorante e guardi la carta dei vini cosa cerchi? Quali sono le cose che ti colpiscono di più?
Non mi interessa tanto trovare una profondità incredibile, quanto che chi mi porta la carta vini conosca tutto quello che c’è lì dentro, perché se riesce a non farmela aprire sono molto più felice. Dentro devo trovare l’Italia, perché oggi abbiamo un sacco di regioni che fanno grandissima espressione territoriale attraverso i vini: dei localismi importanti e quei quattro o cinque vini divertenti che ci sono in ogni area.

Che cos’hai ordinato oggi? Con quale vino hai accompagnato il piatto?
Quando sei un langhetto e vieni a Milano, non puoi non mangiare la cotoletta. La prendo sempre quando vengo da Giacomo. Oggi ho provato l'abbinamento con tre vini diversi, percorrendo un po' l'Italia: dal Piemonte, con il Nebbiolo No Name di Borgogno; passando per la Toscana con il Rosso di Montalcino di Poggio di Sotto, fino alle pendici dell'Etna con Eruzione 1614 di Planeta.

Il nostro fondatore, Giacomo Bulleri, credeva profondamente nella capacità del cibo di evocare ricordi ed emozioni, grazie a sapori, profumi e consistenze. Cosa ti riporta alla mente questo accostamento?
Mi ricorda sempre i pranzi di famiglia della domenica, quando ancora nessuno dei miei fratelli lavorava e ci si ritrovava tutti intorno a un tavolo per mangiare la cotoletta. Si fa anche da noi nelle Langhe, forse con un po’ meno burro… Quel profumo e quel sapore lì mi ricordano proprio il senso di famiglia.

Se dovessi descrivere la tua esperienza da Giacomo in tre parole, quali sarebbero?
Buono, conviviale, evocativo.

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